Venture Capital, questo sconosciuto

Se potessimo catapultarci nell’America più febbrile dal punto di vista techno-intellettual, per intenderci un po’ meglio nelle sale universitarie degli istituti che vengono carateterizzati come le università dell’Ivy league, per comodità le riporto così come Wikipedia, ne sentiremmo delle belle.

Per Ivy League, o le Ancient Eight, s’intendono le otto più prestigiose ed elitarie università private degli Stati Uniti d’America. Nonostante siano sorte anche in funzione della fede religiosa (anglicana, puritana, quacchera, battista, presbiteriana, episcopale) dei loro fondatori, le università della Ivy League sono attualmente rigorosamente non-confessionali.

 

E sono: Brown University, Columbia University, Cornell università, Dartmouth College, Harvard University, Princeton University, University of Pennsylvania e Yale University. Alcune le conoscete di certo, altre, come la Dartmouth sono famose per la scuola di matematica e di matematica applicate.

Ma torniamo a noi, se vi fate un giro per queste aule, e per le aule delle università californiane, sentirete con una certa insistenza la parolina start-up.

A quelle latitudine è cosa normale che due o tre neodiplomati con una buona idea in testa decidano di metter su, da soli o, più spesso, aiutati da un investitore, quelli che vengono chiamati venture capitalist?

Per capire cos’è un venture capitalist diciamo cos’è un venture capital Per venture capital s’intende l’apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l’avvio o la crescita di un’attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, imprese come quelle operanti sul web, nelle bio e nanotecnolgiche, nella robotica, nell’informatica e così via.

Ebbene sapete a quanto ammonterebbe il Venture Capital in Italia?

Se portiamo la cosa in dollari, una recente ricerca ha evidenziato, per l’italico belpaese, la strabiliante somma di un dollaro a testa.

Ossia, se nel 2011 il Venture Capital italiano avesse deciso di distribuire tra tutti gli italiani il denaro che ha investito in startup tecnologiche, tanto ci sarebbe arrivato in tasca. Non un dollaro in più. Andiamo a fare qualche raffronto.

Secondo i dati diffusi a fine dicembre nella ricerca intitolata “Theory Vs Reality – Venture Capital in Europe”, realizzata dagli svizzeri di Verve Capital Partners, il VC nostrano è ultimo tra quelli europei per investimenti in “start-up innovative che potenzialmente possono dare nuova linfa alla creazione di posti di lavoro e pilotare lo sviluppo dell’industria”.

Meglio di noi hanno fatto “piccole nazioni” come l’Austria (10$), il Portogallo (7$) e persino la Grecia (3$).

Che dire? Ancora una volta l’Italia sembra pagare un gap tecnologico che si tradurrà, presto o tardi, in gap economico. C’è una certa ritrosia ad investire sui giovani e sulle tecnolgie emergenti, in molti si spaventano e non vogliono perdere soldi. I venture capitalist a stelle e strisce non mancano di dire che 8 “avventure” su 10 vanno male.
Sono le due start up che vanno bene a ripagarli con gli interessi.

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