Ne abbiamo parlato innumerevoli volte.
Ma repetita iuvant.
L’e-commerce in Italia è quasi ancora qualcosa di sconosciuto.
Se la cosa può apparire per certi versi anche deprimente, per altri versi non lo è affatto, dal momento che significa che ci sono e ci saranno diverse opportunità lavorative in tale settore.
I dati Ue sull’e-commerce dicono che, in Europa, si è passati da una quota di consumatori del 20% nell 2004 al 45% (media Ue) del 2012. Un bel balzo non credete? Certo che sì! Ma abbiamo parlato di media, e allora ecco che, a fronte 74% degli svedesi e il 73% dei danesi e britannici nel 2012, c’è l’Italia con un ben più striminzito 17%, al terzultimo posto, e davanti solo a nazioni new entries come la Romania (5%) e la Bulgaria (9%). Vale a dire che siamo dietro anche a nazioni quali Portogallo, Spagna e Grecia.
Dal momento che non può trattarsi di un gap tecnologico, allora la questione deve essere – come dire? – antropologica: per qualche motivo non ci fidiamo, o perlomeno ci fidiamo ancora meno di altri popoli, a comprare online qualcosa che non vediamo, trattando con qualcuno che non conosciamo.
Del resto, non pochi colossi della vendita online ammettono di aver pensato a una strategia diversa per l’Italia, perché ciò che andava bene altrove non funzionava altrettanto efficacemente in Italia.
Insomma, gli italiani vanno corteggiati e conquistati in altro modo. Ma da qui, dalle nuove tecnolgie potrebbe anche ripartire la ripresa. Se gli attuali “operatori” impiegati nell’IT, con particolare riferimento alla parte commerciale, all’e-commerce, possono contare solo sul 17% degli italiani, immaginate cosa potrebbe succedere, anche come occupazione, se la fetta salisse a, diciamo, il 30%.
Fantascienza? Mica tanto. Avete visto i dati dei paesi nordici, no?
Last but not least, di solito i prodotti acquistati tramite e-commerce costano di meno e vengono tracciati.
Ergo, il consumatore risparmia e lo stato incassa il gettito fiscale.
E allora?