Internet distrugge il lavoro? A pensarlo sono professoroni e non dei neo-luddisti

Quando qualcuno arriva a sostenere che Internet (e le tecnologie connesse al web) è responsabile di causare la perdita di posti di lavoro subito si alzano grida sdegnate verso questi neo-luddisti che non capiscono il progresso né tantomeno i tempi che corrono.

Ma sinchè lo dice l’uomo della strada, che magari ha perso il lavoro perché lo stesso è stato automatizzato passi; ma se lo dice un professore del MIT? Le cose cambiano nevvero?
Bene, Erik Brynjolfsson, professore al Mit Sloan School of Economics ha portato alcuni dati: nei soli Usa, dal 2000 a 2009, la produttività interna è aumentata del 2,5%, a scapito però dell’occupazione, scesa del 1,1%.

Brynjolfsson chiama il fenomeno il “grande disaccoppiamento” e lo mostra chiaramente in un grafico in cui ricchezza e occupazione prendono direzioni divergenti.

Ma Brynjolfsson è in buona compagnia, dal momento che su questa falsariga di muove anche Brian Arthur, del Palo Alto Research Center, anche questa una istituzione che ha dato fior di civil servant al Paese e al mondo, non stiamo parlando di no global e black bloc, mette in guardia dai pericoli di quella che molti definiscono “economia autonoma”: software sempre più potenti sono in grado di gestire attività complesse facilmente e a bassi costi, garantendo alle grandi aziende guadagni altissimi. A pagarne le conseguenze sarebbero soprattutto il terziario, dai commessi di Blockbuster a quelli delle agenzie di viaggi. Le tecnologie web facilitano il rapporto tra produttore e cliente a scapito del lavoro dell’intermediario fisico.

E poi c’è anche una questione dimensionale, ne fanno le spese le big old economy.

Ricordate la Kodak? Se avete più di 30 anni sapete ciò che ha rappresentato, no? Bene, questa big da 140 mila impiegati è fallita nel 2012; di contro c’è Instagram con solo 13 impiegati e che è stata stimata e acquistata da Facebook per un miliardo di dollari. 

Sin qui i soloni istituzionali, ma c’è anche un “cane sciolto” come Jaron Lanier teorico del web già anni fa e sostenitore della tecnologia che nel suo libro “Who Owns the Future?” attacca ferocemente la cosiddetta “sharing economy”, spiegando come tutti noi contribuiamo gratis a creare contenuti e valore per le piattaforme dei social network.

Ma che i profitti son distribuiti male, a voler usare un eufemismo.

Tutti d’accordo? Sì e no.
Uno studio di Mckinsey ha evidenziato che in Francia, negli ultimi quindici anni, il web abbia distrutto 500 mila posti di lavoro, creandone però 1,2 milioni.

E il Belpaese? Per ciò che concerne l’Italia, una ricerca di Marco Simoni, della London School of Economics ha messo in mostra che la diffusione di Internet lungo lo stivale non è ancora al passo col resto d’Europa, e per quanto riguarda il Pil rappresenterebbe solo il 2% del Pil.

E Simoni calcola che negli ultimi anni il web ha contribuito a creare 700 mila nuovi posti di lavoro. Insomma, si creano o si perdono? Sembrerebbe che sul breve il saldo possa essere positivo, non così rosee le previsioni sul lungo termine.

Tu che ne pensi?

 

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